Puzzle n. 13. Re: Fuori (dal vecchio) ufficio, ovvero Trasloco da quarantena

Ultimo giorno nel vecchio ufficio, pausa caffè e flashback pomeridiani. Quando un edificio è più di un semplice edificio?

 

27 ott 2020. Sono circa le due del pomeriggio di martedì e sono in ufficio alla mia scrivania. Non sono particolarmente impegnata, ma ho un paio di cose da finire entro oggi. Domani è festa nazionale e poi mancano solo due giorni alla fine del mese.

Mentre mi dico che dovrei andare in cucina a prendere un caffè, clicco distrattamente sulla pagina della mail del lavoro. Ho una mail nella posta in arrivo. Ne leggo l’oggetto, ‘Comunicazione di servizio’, e ho già capito cos’è. Torna l’obbligo di lavorare da casa. Cioè, la mail non dice letteralmente ‘Torna l’obbligo di lavorare da casa’, ma il messaggio dietro ‘Andate in ufficio solo per sistemare le vostre cose, non andate in ufficio per lavorare’ mi sembra abbastanza chiaro.

Era questione di giorni, mi dico, ce l’aspettavamo tutti. È settimane ormai che la Repubblica Ceca è la pecora nera d’Europa: i casi sono in forte aumento, c’è il coprifuoco, tutti i negozi, bar e ristoranti sono chiusi e il 2020 è orribile come e più di prima.

Non sono propriamente appassionata di home office (ne ho scritto un bel po’ qui e, sì, dire ‘non sono appassionata’ è un eufemismo), ma il fatto che l’annuncio non sia una sorpresa aiuta. In più, era già previsto che a inizio novembre l’intera azienda lavorasse da casa per circa tre settimane: c’è il ballo il trasloco nella nuova sede e non possiamo essere fra i piedi mentre spostano tutto nel nuovo edificio. Insomma, ero mentalmente preparata.

Alcuni hanno già preparato le loro cose, ma nelle cucine comuni ci sono ancora pile di scatoloni, in attesa di essere montati da chi metterà piede in ufficio solo ed esclusivamente per imballare le loro cose.

Sono da sola in ufficio da mesi ormai, visto che sono l’unica del mio dipartimento a lavorare sempre qui. C’è chi viene qui una volta ogni tanto, chi si mette d’accordo in anticipo con qualcun altro, così ne approfittano per vedersi e passare la giornata insieme, ma in generale sono veramente, veramente poche le presenze fisse.

Nei primi tempi in ufficio dopo il primo lockdown facevo più spesso domande tipo ‘Pensi di venire in ufficio nei prossimi giorni?’ o ‘Quando ci vediamo la prossima volta?’. Adesso lo chiedo solo quando so che ci sono reali possibilità di sentirmi rispondere sì.

Tramonto, 7 dic 2017

 

Archivio la mail della ‘comunicazione di servizio’, metto la mascherina e, finalmente, vado davvero in cucina a prendere il caffè. Mentre cammino in corridoio, distrattamente mi dico: okay, avevo intenzione di lavorare in ufficio fino a venerdì, ma adesso devo ripensare la cosa. Quasi tutte le mie cose sono già imballate, visto che ho sistemato sia lo schermo del pc sia la mia roba della scrivania settimana scorsa. Anche l’armadietto è già vuoto, devo solo scendere in reception a restituire la chiave prima delle 4, che poi chiude. La chiave nuova me la daranno poi nella nuova sed-

Mi rendo conto che oggi è il mio ultimo ultimissimo giorno in questo ufficio ed è stranissimo. Ho abitato questo edificio per quattro anni. Una volta ho scritto che non sono brava con gli inizi e le fini: sono molto più brava con tutto quello che c’è in mezzo. Beh, è vero che con le fini non ci so fare: non ci so fare per niente.

Torno verso la mia scrivania con il caffè. Cammino lentamente e, quando arrivo alla fine del corridoio, proprio dove inizia la parte con le scrivanie (ora vuote), mi fermo e mi appoggio al muro. Bevo un sorso di caffè, attraverso con gli occhi tutta la stanza e vedo il quinto piano. Lo vedo tutto.

Vedo il piano in cui ho fatto il primissimo training pochi giorni dopo essere arrivata a Brno; allora era anche l’unico piano in cui aveva sede l’azienda. È il piano in cui ho lavorato per mesi, prima di essere spostata al sesto, e dove sono tornata quando il mio dipartimento è stato di nuovo trasferito al quinto – c’è stato un certo movimento fra piani a un certo punto.

Vedo la cucina in cui ho condiviso anni di pranzi, pause caffè, pause torta, pause biscotti, colazioni, e ancora risate, lacrime, conversazioni estemporanee che non potrei ricordare se non in parte (ce ne sono state troppe) e conversazioni serie e difficili che ricorderò per sempre (di queste non ce ne sono mai troppe).

Vedo tutte le scrivanie del quinto piano a cui sono stata seduta in questi anni a tutte le ore del giorno e della notte (quando facevo i turni) e vedo quella che ho ora, a cui sono seduta da ormai più di un anno. Sono sempre stata particolarmente legata a questa scrivania.

Vedo le scrivanie vuote dei miei compagni di team e mi rendo conto di quanto mi siano familiari. Ho anche aiutato a ‘personalizzarne’ alcune. Queste scrivanie sono state così calme e silenziose quest’anno. Spero torneranno presto a essere occupate e rumorose, una volta che le hanno portate nella nuova sede.

Vedo la stanza-guardaroba in cui mi sono ‘nascosta’ ogni volta che mi suonava il telefono e dovevo rispondere, perché magari mia mamma doveva chiedermi qualcosa di urgente oppure una delle mie nipoti aveva una domanda cruciale sui suoi compiti di inglese. È lo stesso guardaroba in cui ho avuto anche un altro paio di quelle conversazioni serie e difficili che ricorderò per sempre.

Tramonto, 19 gen 2018

 

Ma non vedo solo il quinto piano. Vedo la mia vecchia scrivania al sesto, a cui ho passato alcuni dei mesi più intensi e divertenti di sempre grazie alle poche, ma speciali persone che erano allora nel mio team.

Vedo la ‘mia’ doccia del sesto, che ho iniziato a usare regolarmente solo quest’anno, quando mi sono abituata a venire tutti i giorni al lavoro in bici. Mi prendo la libertà di definirla ‘mia’ perché, da quando ho scoperto dov’era, non l’ho mai trovata occupata. Era come se avesse il mio nome scritto sulla porta.

Vedo la gamba del tavolo, sempre al sesto, che mi ha rotto l’osso del dito quando sono caduta e l’ho urtata mentre attraversavo il piano con il cane del mio amico. Il cane mi ha tagliato strada e io, per non calpestarlo, sono inciampata ed ecco che mi ritrovo in terra sotto il tavolo e qualcuno prende dal freezer un pacco di piselli surgelati e me lo dà da mettere sulla mano. Solo che il dito era talmente gonfio e viola che la mattina dopo sono dovuta andare in ospedale e alla fine mi hanno dovuto operare per sistemare l’osso. I piselli surgelati non sono bastati.

 

Vedo l’ampia finestra della cucina del settimo piano, quello che conosco meno, visto che non ci ho mai lavorato. È sempre stato un mezzo labirinto. Ci vado solo per salutare il mio amico David (e il suo cane) o per guardare fuori dalla finestra al tramonto. O per fare entrambe le cose allo stesso tempo.

Vedo la lunga rampa che porta all’ingresso dell’edificio. Vedo anni di me che vado su e giù da quella rampa (ultimamente solo quando piove), che leggo questo o quel libro con gli occhi incollati alla pagina o (più spesso) che faccio entrambe le cose allo stesso tempo. E non riesco a non pensare a quanto fumo passivo devo aver respirato, a far compagnia ai miei amici fumatori quando facevamo pausa insieme e uscivamo a prendere una boccata d’aria.

E vedo le panchine e le aiuole tutt’intorno all’edificio. A ogni panchina e a ogni pezzo di prato potrei associare una o più chiacchierate, pause pranzo, bevute, discussioni serie e pause caffè. Alcune sono anche le panchine su cui mi sono vista con le persone coinvolte in alcuni dei progetti fotografici di ‘Pictures Of You’. Ho messo a sedere le persone una alla volta e gli ho dato i libretti con le foto.

Sembra tutta roba successa una vita fa.

 

Appoggio la tazza vuota nella lavastoviglie, torno alla mia scrivania, spengo il computer e sono pronta. Esco intorno alle cinque e mezza. Fuori c’è già buio e io devo andare subito a casa per la lezione di ceco, che da oggi si fa di nuovo su Skype. Mentre aspetto il bus, guardo quello che è ormai ufficialmente il mio ‘vecchio’ ufficio.

Era solo un ufficio, direbbe chiunque. Lo era, ma era anche altro. Non per l’ufficio in sé e non per motivi strettamente lavorativi. Ma negli ultimi quattro anni c’è stata tanta vita in quelle quattro mura. E ci sono state tante persone, alcune più di altre.

Quando penso a queste cose mi chiedo sempre se anche gli altri fanno i miei stessi ragionamenti. Ho l’impressione che il mio cervello conservi ricordi fotografici delle cose che succedono, per cui poi ricordo tutto di quello che è successo: la data e giorno della settimana, cosa indossavo, spesso cosa indossavano gli altri, le sensazioni esatte che ho provato, cosa è stato detto e quando, cosa ho mangiato quel giorno a pranzo, quante birre abbiamo bevuto dopo il lavoro quel giorno e via dicendo. È come guardare e riguardare video nella mia testa.

Mi chiedo se anche gli altri hanno pensato ai loro ricordi più o meno belli del vecchio ufficio quando sono usciti dall’edificio sapendo che non ci sarebbero più tornati. O magari hanno semplicemente attraversato le porte scorrevoli al piano terra e, niente, in un attimo erano fuori ed è finita lì: in fondo era solo un ufficio.

Mi sa che è vero che non sono brava con gli inizi e le fini.

Tramonto in ufficio

Tramonto, 2 gen 2018

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