Puzzle n. 12. Zoom da quarantena

Lo spunto per questo post è partito da un articolo del Guardian, ma poi mi sono accorta di voler scrivere anche di altro: le gioie (?) del lavorare da casa, i link di Zoom e cosa fare della quotidianità ‘post-lockdown’ in cui viviamo.

 

30 ago 2020. Oggi mi sono imbattuta in un articolo del Guardian di Barbara Ellen, il cui titolo è: Relationships, advice, careers… so much of life is lost when you work from home [Relazioni, consigli, carriere… a lavorare da casa vanno persi così tanti pezzi di vita]. La mia amica Bobby l’ha condiviso su Facebook e, mentre scorrevo distrattamente la home, il titolo mi ha colpito all’istante. Sembrava rivolgersi a me, come se mi leggesse nel pensiero fino agli strati più profondi della mia mente.

L’articolo (che in realtà è più il primo in una serie di trafiletti su temi vari) si sofferma sui pro e contro del lavorare da casa (WFH in inglese) come realtà ‘imposta’ dalla pandemia. In particolare, mette a confronto coloro che già prima erano abituati a farlo e chi ha gradualmente adottato questo sistema sulla scia di quarantene e lockdown nazionali fino a farne un’abitudine.

Ciclabile per Bílovice nad Svitavou

 

‘Caro lavoro da casa, ti adoro’

È un dato di fatto che, fra le altre cose, questa pandemia ha stravolto la routine di lavoro di tutti. C’è chi ha fatto del lavoro da casa la regola. Mi verrebbe da dire che queste persone sono la maggioranza. Non è neanche più una questione di virus: semplicemente preferiscono così. (Va da sé che qui parlo di lavori che ammettono la modalità del lavoro da remoto.)

Per alcuni non doversi spostare per andare al lavoro vuol dire guadagnare una mezz’ora di sonno in più oppure un sacco di tempo prezioso da dedicare a lavori di casa e commissioni (che non devono più fare fuori dagli orari di lavoro). Altri semplicemente apprezzano la loro dose quotidiana di tuta abbinata a pause caffè, da passare sul balcone a godere del sole e ammirare le proprie piante – quali piante, caso vuole, sono cresciute durante il lockdown. (Anche io ne so qualcosa in questo senso: anche il mio piccolo giardino ha preso vita in piena quarantena.)

E poi c’è una minoranza che difende ancora strenuamente la routine del ‘lavoro al lavoro’. Anche io ne faccio parte. Concordo appieno con l’autrice dell’articolo del Guardian quando dice: ‘I luoghi di lavoro offrono tutto, dall’interazione sociale allo sviluppo professionale/personale fino all’accrescimento delle capacità di relazionarsi con gli altri.’

Brno, Medlánky

Va da sé che i vantaggi lavorativi che derivano dallo stare in ufficio sono molteplici. Le discussioni di lavoro sono molto più agevoli e immediate, senza contare che si fa più in fretta a risolvere problemi e rettificare processi.

È molto più facile organizzare meeting ‘in presenza’, perché non ci si deve preoccupare di quanto stabile sia la connessione di chi vi partecipa. Inoltre, se proprio a fine meeting vedete che avete scordato di chiedere qualcosa, potete aggiungere: ‘Che poi, ragazzi, scusate, ultima domanda…’ anziché rendervi conto che tutti hanno ‘abbandonato il meeting’ e non sono più connessi.

Anche il viaggio per andare e tornare dal lavoro ha il suo perché, che sia in bus, in bici o a piedi. Spegnere il computer e uscire dall’ufficio vuol dire dare inizio al resto della giornata e non portarsi il lavoro a casa. E anche se poi uno accende il proprio portatile a casa, il viaggio per arrivarci offre una salvifica pausa dalla tastiera, per quanto di breve durata.

Ma c’è di più. L’ambiente lavorativo è molto più complesso e stratificato di quanto sembri. È fatto di chiacchierate improvvisate, dritte e conversazioni sugli argomenti più disparati, dai benefici degli oli essenziali a verdure sconosciute e (questo il mio preferito finora) i pro e i contro del crescere in fattoria.

‘Lavorare al lavoro’ significa interazione umana, confronto e quindi crescita. Interagire aiuta a dare significato ai propri pensieri e l’arricchimento che ne deriva è sia professionale sia (soprattutto, oserei dire) personale. Trovo ci siano poche cose più stimolanti, coinvolgenti e necessarie di questa.

Per cui sono d’accordo con la Ellen (l’autrice dell’articolo) quando dice che ‘per quanto appagante sia lavorare da casa, dobbiamo considerare anche quello che viene sacrificato’ e quando fa presente che ‘molti incontrano al lavoro i propri compagni di vita’, mentre ‘altri a lavorare da casa rischiano l’isolamento e seri problemi di salute mentale’. Per alcuni il cosiddetto home office non vuol dire lavorare in tuta e dormire un’ora in più. Per alcuni vuol dire soffrire un insopportabile isolamento e gestire effetti collaterali psicologici di cui magari non si rendono ancora del tutto conto.

Brno, Medlánky

 

Dose quotidiana di Zoom

Nel quadro che ho descritto finora la mia crescente avversione per Zoom ci sta alla perfezione. Ormai stiamo raggiungendo picchi di rifiuto senza precedenti.

Questo sistema di videoconferenza è ormai super diffuso ed è stato obiettivamente utilissimo in tempi di pandemia globale. Da quasi un anno ormai contribuisce al funzionamento quotidiano di aziende, istituzioni e scuole in tutto il mondo. Durante la quarantena, anzi, ha aiutato ad ‘accendere’ barlumi di normalità, per esempio quando chiamate di lavoro hanno lasciato il posto a parentesi tipo ‘E i tuoi gatti, come stanno?’, oppure quando colleghi hanno usato Zoom per partecipare a quiz e serate karaoke online.

Iniziative così hanno fatto (e, in certa misura, fanno tuttora) la differenza per molti. Perfino io ho il mio account Zoom personale e posso creare tutti i link che voglio. Tanto sono autosufficiente in fatto di Zoom.

D’altra parte, recuperare l’interazione umana reale dopo il lockdown ha reso più difficile apprezzare i vantaggi di Zoom, mettendone invece in luce i punti deboli. C’è la moderata frustrazione del vedere solo la versione ‘fototessera’/’foto segnaletica’ delle persone. C’è la desolante sensazione di essere soli in un ufficio che avevi imparato a conoscere come rumoroso, vivace e pieno di persone. La quiete è bella, ma sono le persone a ‘fare’ il posto e dove sono le persone?

E c’è il nervoso che viene dall’avere solo link Zoom della durata standard di 40 minuti. Ciò vuol dire che, quando scade il limite temporale di partenza, ci si deve riconnettere e, ovviamente, lo si deve fare di nuovo (e di nuovo) se il meeting è particolarmente lungo.

Ho assistito in prima persona a un episodio emblematico de La Frustrazione di dover usare Zoom tutti i santi giorni. Immaginate di essere trainer in un’azienda e, per via di un problema tecnico, tenere una lezione di tre ore usando il link Zoom da 40 minuti. Ciò significa riconnettersi quattro o cinque volte nel corso della sessione – e pregare che lo facciano anche gli altri. Lo stress c’è e si vede.

Da qualche parte vicino a Vranovice, percorso ciclabile

Va da sé che sto raccontando un episodio di vita vissuta, anche se nella storia io non ero la trainer, bensì uno dei partecipanti alla sessione. La nostra trainer ha avuto problemi con la stanza da cui doveva lavorare in ufficio e si è ritrovata con il link basico. L’esasperazione nei suoi occhi era palpabile mentre cercava di spiegare a un ragazzo del gruppo quale riga in un pdf di cinque pagine andasse modificata. Voleva disperatamente puntare il dito sulla riga in questione sullo schermo di lui. Solo che era lei che condivideva il proprio schermo, per cui lei poteva solo provare, ancora una volta, a spiegare il procedimento a parole. Credo di poter dire che abbiamo finito tutti quella sessione con il mal di testa.

 

Il nuovo normale?

Mi viene da pensare che l’home office facoltativo sia davvero la nuova normalità. Non solo è ‘operativo’ da abbastanza tempo da sembrarlo, ma la realtà dei fatti (leggi: segnali di imminenti seconde ondate) lascia pensare che rimarrà in vigore ancora per un po’.

In verità, non è tanto l’apparente ‘normalità’ del nuovo regime di lavoro a disorientarmi quanto l’imperturbabilità (apparente?) con cui la maggior parte delle persone sembra affrontarlo da quando è stato introdotto.

Sono per lo più circondata da persone che nell’home office ci sguazzano. Alcune non le vedo da mesi se non attraverso Zoom – e, in alcuni (rari) casi, neanche quello, perché hanno una connessione piuttosto debole, per cui o parlano o accendono il video. E capisco che parlare è la priorità.

Lungi da me l’idea di osare giudicare le scelte di nessuno. Non solo non sono nella posizione di farlo (né lo sarebbe nessuno), ma poi chi sono io per dire che il mio modo di vedere le cose è migliore di quello degli altri? Senza contare che magari per alcuni stare in casa il più possibile è un modo per proteggere la propria salute e sicurezza, che non sono argomenti su cui uno vuole scherzare o esprimere giudizi.

Brno, fra Medlánky e Komín

Brno, Královo Pole

Mi affascina molto la scioltezza con cui le persone hanno fatto del lavorare da casa uno ‘stile di vita’. Trovo la loro tranquillità a un tempo rigenerante e stimolante. È rigenerante perché è bello vedere come le persone abbiano saputo adattarsi all’andamento sconvolgente del 2020 o, per lo meno, a gestirne bene gli effetti a breve e medio termine. È stimolante perché mi fa fare un sacco di domande.

 

Tutte le domande

Mi porta a chiedermi: ‘Perché non funziono così anch’io?’ Mi porta a chiedermi se si tratti davvero solo di scegliere l’ambiente di lavoro che uno preferisce o, magari, c’è qualcosa di più profondo da leggere fra le righe. Di solito c’è.

Forse se si ha una vita abbastanza equilibrata, se si ha una solida rete di relazioni umane che esiste al di fuori del lavoro, si è inevitabilmente portati a preferire lavorare da casa anziché dal lavoro? Se è davvero così, magari c’è qualcosa di preoccupante nel voler andare in ufficio.

Non ho la risposta a nessuna di queste domande. Immagino che le risposte (alcune, perlomeno) si trovino a metà fra traumi ancora semi sepolti del mio passato e la consapevolezza (confermata dall’esperienza) che il distacco improvviso e forzato dalle persone fa a me quello che la siccità lampo fa ai raccolti, lasciandoli tutti secchi e appassiti.

Quest’ultimo passaggio, in particolare, mi fa sempre ripensare all’articolo che il giornalista italiano Beppe Severgnini ha scritto per il New York Times nel marzo di quest’anno. Commentando l’impatto delle misure restrittive appena introdotte a inizio pandemia, ha fatto un’osservazione disarmante: ‘Per una società come quella italiana, la compagnia degli altri è meglio dei sedativi e, se ti trovi a doverne fare a meno, soffri di astinenza.’

La verità di queste parole mi sconvolge, né riuscirei a pensare a un modo migliore di spiegare questa sensazione. Mi sento spesso dire che per tante cose sono poco italiana, ma questa sensazione farebbe saltare la mia copertura come niente.

Ed è proprio per colpa di questa sensazione che so di non essere portata per il lavoro da casa. So per certo questo e poco altro. Sì, perché il 2020 ha stravolto quasi tutte le (già poche) certezze che credevo di aver eletto a punti saldi della mente e del cuore. E io, che pensavo di essere abbastanza vecchia grande da averne messo da parte almeno qualcuno di cui potermi fidare ciecamente. Poi scopri che le cose cambiano sempre in modi che proprio non avevi previsto e a volte resistervi è tanto sfinente quanto inutile.

Brněnská přehrada (Lago di Brno)

A volte sento questo collega o quel conoscente dire che ‘questa è stata l’estate più strana della mia vita’ o ‘non riesco a pensare di programmare un viaggio nel breve termine, non ne vale veramente la pena’. Frasi così mi fanno sentire un po’ più ‘normale’ in un momento della vita in cui mi sembra che veramente tutti abbiano tutto sotto controllo, mentre io annaspo nel pozzo che è stato finora questo 2020.

Non posso fare a meno di ripensare a quel che ho costruito negli ultimi anni. Cerco di capire se ho davvero costruito qualcosa oppure, come dicono saggiamente gli Shins, ho solo ‘impilato mattoni’ (in inglese ‘laying bricks’).

Sembra tutto così immobile e fragile, anche se lo so che non può essere così. Forse le cose si stanno solo muovendo su linee che non conosciamo tanto bene ed è per quello che sembra tutto fermo. Che poi, non sempre dare una spiegazione a qualcosa fa passare la paura.

 

Me lo ricordo bene quello che ho scritto nel primo post a tema quarantena, quando stava cambiando tutto. Ho scritto: ‘A questa situazione ci dobbiamo adeguare, ma non ci dovremmo abituare. Questa non è la vita che conosco e amo, per cui non dirò mai che mi ci sono abituata.’

Non ho cambiato idea. Adesso, però, forse vedo le cose un po’ più in prospettiva rispetto a sei mesi fa, quando ho scritto quel post. Poco ma sicuro, questa pandemia ha avuto (e avrà) conseguenze a lungo termine, se non permanenti, su tutti quanti. Il regime del lavoro da casa continuerà a prosperare, sia perché fa rima con la sicurezza degli impiegati sia perché ormai è diventata una modalità di lavoro standard, laddove praticabile.

Ignorare gli effetti di tutto quello che è successo quest’anno sarebbe estremamente ottuso e miope, perché vorrebbe dire negare la realtà delle cose. Ma soprattutto, vorrebbe dire ignorare l’impatto che sta avendo su ognuno di noi. E questo sarebbe veramente un ‘elefante nella stanza’ troppo grande perché possiamo permetterci di far finta di niente.

Brno, Kraví hora

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