Le conversazioni profonde che non ti aspetti. Di traumi, del parlarne mentre si cena e del gusto orrendamente dolce della Coca Cola Zero.
20 nov 2019. Okay, anche per questo post, come per lo scorso, l’idea mi è venuta dopo la lezione di ceco. I mercoledì sono produttivi. Sono uscita a cena con alcuni amici e poi, quando ero quasi a casa, mi sono ritrovata con il pensiero in testa. Stavolta, però, non c’è di mezzo l’alcol, bensì due bottigliette di Coca Cola Zero, che, col senno di poi:
1) sono state una pessima idea, perché la Coca Cola Zero è veramente dolce (non bevo mai la Coca, cosa mi è saltato in mente?);
2) mi hanno probabilmente dato alla testa, producendo pensieri carichi di zucchero (leggi: diversamente brilli).
Sono andata a cena in questo posto che fa burger – molto buoni, fra l’altro, anche se un intero panetto di tofu nel panino è veramente impegnativo!
Mentre stavamo ancora ordinando, questa mia amica ha cominciato un po’ per caso ma in modo super efficace, a ‘psicanalizzarmi’. Intendo roba seria, non giusto un paio di domande sulla mia vita e sulla mia infanzia. È veramente brava in questo, sa come chiedere le cose. Ha detto che avremmo finito col parlare di traumi della vita.
(Va da sé che, avessi saputo in che direzione andava la serata, avrei ordinato birra. Come dicevo, ho avuto questa conversazione bevendo Coca dopo un’intensa lezione di ceco sulle celebrazioni del 17 novembre e le frasi condizionali. Immaginate il brio. L’alcol è meglio, in questo caso.)
In realtà è stata più una chiacchierata aperta e onesta che una seduta di psicanalisi. È stato un po’ come dipingere. Il pittore ha un’idea in testa, chiara e vivida, ma tutto il resto esiste solo in potenza.
Per cui il pittore deve proiettare la propria idea sulla tela, sulla tavola, su un muro o qualsiasi superficie decida di usare. Così il potenziale si realizza, così il pittore riesce a capire se l’idea, che pure aveva senso nella sua testa, mantiene un significato, richiede modifiche più o meno importanti, oppure non vuol dire proprio nulla.
È stato un po’ così. E mentre mi arrivavano le domande, ho pensato che andasse bene, che parlare un po’ onestamente di me stessa non mi avrebbe fatto male. Così ho continuato a rispondere. Più rispondevo, più la cosa aveva senso.
Poi, mentre tornavo a casa, ho ripensato a tutta la conversazione. Mi sono resa conto di aver finito con il condividere pezzetti della mia persona che di solito tengo per me. Eppure non mi sentivo privata di qualcosa, come se mi fossero stati strappati i pensieri di dosso. Non ero pentita di aver condiviso quel che, per una volta, avevo condiviso.
Ho pensato che tutti viviamo traumi, ci perdiamo nel bosco, finiamo col ritrovarci a un incrocio con mille strade fra cui scegliere.
E ho pensato che ci sono millemila tipi di trauma e che spesso i traumi hanno a che fare con le paure. Quando si realizzano le nostre paure, c’è trauma nell’aria. E ci pesa addosso, ammacca lati e angoli del nostro essere e ci sentiamo come se non riuscissimo più a muoverci.
Ma lo superiamo. Facciamo un passo (il più difficile), poi un altro, poi un altro e ce la facciamo. Il nostro corpo ne conserva traccia (la memoria fisica è la cosa più potente che ci sia) e può essere che ci troviamo a lasciar andare cose lungo la via, ma ci riusciamo. Ricominciamo a muoverci.
Se ci succede qualcosa, è perché siamo in grado di affrontarlo. A volte ce la facciamo da soli, altre volte dobbiamo essere pittori e tirar fuori tutto, pensarlo ad alta voce, vederlo dall’esterno. Magari non è una soluzione, ma magari è l’inizio di una.
Mentre scendevo lungo Úvoz per tornare a casa, mi sono imbattuta in un giovane che andava a zig zag lungo il marciapiede. Poteva essere uno studente Erasmus di ritorno da un giro di pub o una gran bevuta a casa di amici. Era visibilmente brillo (leggi: pesantemente ubriaco). All’improvviso ha deviato a sinistra e ha attraversato la strada con notevole sveltezza, noncurante del fatto che potessero esserci auto di passaggio.
Gli è andata bene: la strada era deserta.