A Mis e Rutko,
perché già mi mancano.
E a Cube, per lo stesso motivo
1 nov 2019. Erano quasi le dieci quando ho salutato le mie amiche dopo cena. Amo il ristorante vietnamita in cui siamo andate. Quando ci siamo separate, loro sono andate verso un pub in zona. Io ero troppo stanca per restare fuori. Anche una sola birra era troppo. A volte mi sento vecchia.
Ho deciso di andare a casa a piedi anziché in tram. Ha fatto freddo questa settimana, molto più freddo della media del periodo, ma avevo i vestiti giusti e volevo un po’ di aria fredda. Ho attraversato la piazza principale, poi sono salita per Orlí, oltre Zelný trh e, infine, ho imboccato Pekařská in discesa. Lungo la via mi sono imbattuta nella solita folla del venerdì sera: coppie a passeggio mano nella mano, crocchi di studenti Erasmus (alcuni ancora vestiti per Halloween) pronti per andare a ballare e qualche avventore solitario.
Mi piace Pekařská. Mi piacciono i suoi negozi di seconda mano, le sue boutique originali e bar un po’ hipster. È tanto che ho in mente di scrivere delle strade di Brno. Se e quando lo farò, vedrò di includere anche Pekařská nell’elenco.
Questo, però, non è un post su Pekařská, né è un post di viaggio. È più un puzzle di cose che, se uno le mette insieme, formano una figura. O tante figure. Figure di persone, parole, bicchieri mezzi vuoti (o mezzi pieni?) e luci urbane. Le cose che fanno la vita delle persone.
Va da sé che è un post malinconico, perché io sono una persona malinconica. È un po’ come il post che ho scritto l’anno scorso, quando ero in ospedale dopo essermi rotta un dito. (A questo proposito, spero che la signora Marie S. sia davvero stata dimessa dopo che sono andata via. A volte ci penso ancora, mentre vado al bus dopo il lavoro. L’ospedale Bohunice è proprio di fronte a dove lavoro, è così facile alzare gli occhi e chiedermi dove sia.)
A volte non puoi farci niente. A volte stai andando a casa a piedi e i pensieri nella tua testa sono come un’alluvione. Sono così tanti e così forti che devi prendere il telefono dalla tasca, aprire la conversazione che hai con te stessa su Messenger e prendere nota di tutti, così, appena arrivi a casa, puoi metterli insieme e scriverci un post sul blog.
A Zelný trh sono passata accanto a una senzatetto. Dormiva seduta su una panchina, con due grandi borse accanto a lei. Dal busto in su era inclinata su un lato e dormiva con la testa su una delle borse. Come poteva essere comoda, seduta così? Come faceva a dormire? Ma poi, sareste mai comodi a dormire su una panchina quando ci sono zero gradi?
Non so neanche perché ho pensato che fosse una donna. Non si capiva, perché il cappuccio del cappotto le copriva quasi tutto il viso. Forse mi ha ricordato la signora senzatetto che ho visto una volta dal finestrino del bus mentre tornavo a casa dalla stazione. Quella, sì, era una donna, si capiva.
Ho superato la senzatetto sulla panchina. Ho pensato a come una cosa possa avere un significato e a un tempo il significato opposto, a come essere soli sia una benedizione per alcuni e una tragedia per altri, e voi da che parte state? Dove tracciate la linea di confine? E dove la traccio io la linea di confine?
Sono passata accanto a un club gay per uomini, che nessuno indovinerebbe cos’è se non notasse la piccola e anonima insegna bianca che sovrasta la porta d’ingresso. Non c’era fuori nessuno, solo l’insegna. Ho pensato che vivo in un mondo in cui c’è ancora chi pensa seriamente che chi è gay abbia qualcosa che non va. Ho pensato che non avrei saputo da che parte cominciare per approfondire l’argomento, così ho pensato che mi bastasse la certezza di non essere una di quelle persone.
Sono passata accanto a un negozio dismesso quasi di fronte all’ospedale. Ho pensato che l’antifurto avesse qualcosa di strano, perché partiva a intermittenza senza motivo. Ho pensato che forse qualcuno avrebbe dovuto darci un’occhiata, perché se avesse iniziato a suonare nel cuore della notte, avrebbe svegliato tutto il palazzo.
Per qualche motivo ho pensato a quando eravamo ancora al ristorante vietnamita e io e le mie amiche ci siamo fatte una selfie prima di uscire. Una di loro ha preso il telefono dalla tasca per scattare la foto e, quando ha tracciato la sequenza di sblocco, ho notato che ha disegnato l’iniziale del suo nome sullo schermo.
Ho pensato a come cerchiamo sempre di personalizzare tutto quello che usiamo e possediamo. Attacchiamo portachiavi alle borse per renderle uniche, mettiamo spille sulle giacche e sugli zaini per mostrare che sono nostri e appendiamo foto e post-it sulla scrivania al lavoro come se fosse nostra.
Siamo sempre alla ricerca di un qualcosa che ci identifichi e rappresenti, che possiamo riconoscere e non ci faccia sentire fuori posto. Non ci piace essere anonimi o sentirci invisibili — a meno che scegliamo noi di farlo, nel qual caso non sopportiamo l’idea che qualcuno ci venga dietro o, peggio ancora, ci trovi.
Sono passata accanto al mio palazzo per raggiungere l’ingresso. Quando ho girato l’angolo, ho intravisto la sagoma di un uomo seduto accanto alla porta posteriore del pub vicino a casa. Il lampione sopra di lui lo illuminava di giallo. Era immobile, con la sigaretta in mano. Sembrava quasi che qualcuno l’avesse dimenticato lì e ora lui aspettava che tornassero a riprenderlo.
Ho fatto le scale per arrivare al piano e mi è caduto l’occhio su alcuni oggetti a caso fuori dalle porte di altri appartamenti: una borsetta vuota, un posacenere mezzo pieno, scarpe da montagna messe fuori ad asciugare. Anche queste cose sembravano essere state lasciate distrattamente lì, abbandonate e dimenticate in corridoio.
Erano così fuori contesto, perché oggetti come quelli siamo abituati a vederli attaccati ai corpi dei rispettivi proprietari. A vederli così, sembravano incompleti, come se gli mancasse qualcosa.
Ho pensato che due delle mie persone preferite e il mio cane preferito al mondo hanno lasciato questa città e mi mancano tanto. Mi sento un po’ come quando uno si scorda per un attimo di aver perso un oggetto a cui teneva e si aspetta di trovarlo dove lo teneva di solito. Poi si ricorda che non è più lì, che ‘forse ti è caduto da qualche parte?’, e per un istante lo attraversa una fitta di nostalgia di qualcosa che non ha più con sé.
Certo che con le persone è diverso: uno le persone non le possiede, né le perde solo perché queste vanno a stare in un altro paese. Ma per un nanosecondo, uno solo, quella fitta di nostalgia ci attraversa comunque.
Ho pensato che con le persone non è facile. Vi si insinuano sottopelle senza preavviso, e a volte fa male e a volte è bellissimo. E non lo sapete in anticipo se farà male o sarà bellissimo, ma dovete essere abbastanza onesti e coraggiosi da osare comunque e lasciarle fare. Dovete prendervi cura di loro e dirgli e dimostrargli quanto gli volete bene. E se vanno a stare in un altro paese non fa niente, perché resteranno comunque con voi e vi vedrete ancora.
Non so bene come o perché io abbia pensato tutte queste cose mentre tornavo a casa a piedi. D’altra parte, un’alluvione è un’alluvione: anche quella succede senza preavviso. Forse sarei dovuta andare al pub con le mie amiche stasera. Forse sarei dovuta tornare a casa in tram.
O forse no. Forse va bene che io sia tornata a casa a piedi.
Hai fatto bene tornare a piedi, perché sembrava di camminare a braccetto con te.
Anche secondo me ho fatto bene a tornare a piedi. Grazie mami <3