Ucraina 2017 (2/10). Intermezzo all’aeroporto di Budapest

Questo post è la dimostrazione di come notare qualcuno o qualcosa per caso possa far partire una riflessione infinita su luoghi e non-luoghi. Il tutto, fra l’altro, in aeroporto. Che coincidenza.

 

1° set 2017. Erano circa le due del pomeriggio. Avevamo appena mangiato i nostri panini vicino all’area gate in aeroporto e il divanetto su cui eravamo sedute era tutto coperto di briciole. Oops.

Mentre pensavamo a come far passare il tempo prima di imbarcarci, mi è caduto l’occhio sulla ragazza appoggiata al bancone di un chiosco poco lontano. (‘Chiosco per lo shopping’. Non so neanche se si chiamano così.)

Era carina e molto ben vestita. Portava una tuta nera, sembrava di seta. Indossava gioielli e un orologio d’oro (veri o finti, chi lo sa.)

Se ne stava lì in piedi e in mano aveva un tubetto di un prodotto cosmetico che sapeva di super costoso: un profumo, una crema per il viso, del fondotinta o qualcos’altro che non riuscivo a identificare.

Budapest, stazione

Il chiosco pareva uno di quei negozi temporanei in cui chi è di passaggio da o verso il proprio gate magari si ferma un attimo, anche solo per farsi aggiustare il trucco da una delle commesse o provare qualche nuovo prodotto, che poi le commesse di cui sopra sperano che uno poi compri.

La ragazza avvicinava i passanti, ‘sponsorizzando’, appunto, il prodotto nel tubetto. Non ce n’erano molti (di passanti), per cui, mentre aspettava potenziali clienti, giocherellava con il tubetto. Lo lanciava in aria facendolo girare e poi cercava di prenderlo al volo quando ricadeva giù. A volte ci riusciva, a volte mancava la presa e questo cascava, così si chinava a raccoglierlo senza tanto entusiasmo. A prescindere dal risultato, sembrava annoiata a morte, per non dire triste: il silenzio del suo gesto così ripetitivo parlava per lei.

Stazione di Kiev

Kiev, stazione

Mentre la guardavo, non potevo fare a meno di farmi mille domande, alcune al limite dell’esistenziale.

Fino a che punto le fa piacere starsene lì a fare il lavoro che fa? O lo fa solo perché in fin dei conti uno in qualche modo a fine mese ci deve arrivare?

Si veste così proprio abitualmente o quando non lavora è un tipo da jeans e felpa?

Le interessa qualcosa del prodotto che sta promuovendo e vendendo?

Lei ci spenderebbe quei soldi per comprare un profumo o crema? (Non poteva costare poco, si vedeva che era costoso.) O lei di suo è il genere di persona che compra creme e cosmetici al supermercato e chi se ne frega della marca?

Mentre eravamo lì sul divano, ha fatto cadere il tubetto tre volte. È tanto per i suoi standard? O è il suo record? Magari prima era più imbranata e lo faceva cadere quasi sempre, poi è migliorata e quel giorno quelle tre sono state le uniche tre volte che le è cascato il tubetto? E magari è già da un po’ che lavora lì.

Stazione di Kiev

Stazione di Kiev

All’improvviso mi è venuta in mente la riflessione che volevo fare fin dall’inizio (lo dico sempre che non ho il dono della sintesi): come mi affascinano gli aeroporti. È incredibile il modo in cui fanno convergere le persone e le portano a interagire a caso su argomenti a caso a orari a caso 24 ore su 24. Gli aeroporti sono come esperimenti antropologici nella vita reale, che portiamo avanti inconsciamente e di cui allo stesso tempo siamo ‘vittime’ dal momento in cui entriamo in una qualsiasi area partenze (o arrivi).

Poco conta il ‘dove’ di per sé: tanto gli aeroporti sono non-luoghi, per cui uno potrebbe essere ovunque, al di là del posto in cui si trova davvero.

È la stessa idea di non-luogo che mi affascina un sacco. Quello che mi attrae di più, pensavo lì seduta sul divanetto, è la quasi doppia natura che li contraddistingue.

Aeroporto Boryspil a Kiev

Kiev, aeroporto Boryspil

Tipo, da un lato disorientano un sacco, astratti come sono da qualsiasi coordinata urbana identifi-cabile. Dall’altra, hanno caratteristiche talmente standardizzate e facilmente riconoscibili che, se uno è stato in un aeroporto almeno una volta nella vita, è facile che, quando entra in un altro, ci ri-trova una certa familiarità, per quanto totalmente sconosciuti possano di fatto essere i dintorni o la geografia della città in sé.

Emanano un senso di sospensione nel tempo e nello spazio davvero intenso. Perfino lì, seduta a pensare sul divanetto, riuscivo a percepirlo. Non fosse stato per l’alfabeto latino dei cartelli in giro, potevamo essere ovunque: Tokyo, Mosca, Tbilisi o qualsiasi altra città del mondo.

Volevo approfondire ancora un po’ l’argomento, ma proprio in quella hanno annunciato che avevano appena cambiato di punto in bianco il gate del nostro volo, quindi dovevamo proprio affrettarci. Eravamo a Budapest e partivamo per l’Ucraina.

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