Entrare nella Zona dei 10 km significa vedere e visitare alcuni dei siti più importanti della Zona di Esclusione: la città segreta Chernobyl 2, il radar Duga, l’asilo di Kopachi e il Reattore n. 4.
Lasciare Chernobyl vuol dire (anche) entrare nella Zona dei 10 km. Non è che uno se ne accorge: non ci sono cartelli o altro. Semplicemente lo sa, e comunque non sempre. Noi, per esempio, l’abbiamo scoperto solo dopo che proprio in quel momento eravamo passate da una zona all’altra. Sapevamo invece che lasciare Chernobyl città voleva dire avvicinarsi al reattore.
Non subito, però. La prima sosta all’interno della Zona dei 10 km, infatti, è la città segreta Chernobyl 2.
La città segreta Chernobyl 2 e il Duga
Chernobyl 2 (Чорнобиль 2) è un complesso militare super segreto all’interno della Zona. Il sito, ora deserto e disabitato, operava a pieno regime in epoca sovietica, quando, ovviamente, era utilizzato per attività di spionaggio. In quanto località segreta, non era riportata sulle mappe, né i civili potevano entrare o avvicinarsi alla zona.
Chernobyl 2 era anche sede del noto radar Duga (Дуга). Il Duga è un sistema radar cosiddetto ‘oltre orizzonte’ (OTH in inglese) usato fra il 1976 e il 1989 quale parte integrante del sistema antimissilistico sovietico di allora. L’obiettivo principale era proprio quello di localizzare e monitorare ‘i lanci di missili balistici dal territorio del potenziale nemico’. Il Duga è noto anche come ‘Picchio’, per via del segnale radio che emetteva, simile, appunto, a quello del volatile che gli dà il nome.
Un libro del tipo ‘Duga per negati’ probabilmente descriverebbe la struttura come ‘un doppio reticolo gigantesco che sovrasta il bosco di pini all’interno della città segreta’. Una spiegazione scientifica richiederebbe qualche dettaglio in più, ma non sono ferrata nel genere, quindi mi limiterò ad aggiungere qualche aneddoto curioso sia sul Duga sia sul complesso militare in generale:
1. C’è un corridoio che attraversa tutta la struttura del Duga da un’estremità all’altra. Magari suona come una cosa normale, lo so. in realtà, davvero, anche solo immaginare che un corridoio tanto lungo esista è quasi impossibile, a meno che siate in piedi a un ingresso e cerchiate con lo sguardo di individuare anche solo un minimo, remoto bagliore di luce all’uscita sul lato opposto – ovviamente, invano. Il corridoio sembra veramente un tunnel senza fine che diventa un buco nero.
2. Il futuro del complesso è piuttosto incerto. Il rischio che la struttura crolli è reale e comporta effetti potenzialmente disastrosi, dal momento che le vibrazioni causate da un potenziale crollo potrebbero raggiungere il reattore, con chissà quali conseguenze. Insomma, a un certo punto do-vranno chiarire quale sarà il futuro del Duga.
3. Su uno dei cartelli di pericolo (Прохiд заборонено! Небезпечна зона) vicino alla strada princi-pale della città qualcuno ha aggiunto a penna la notissima citazione dal Canto III dell’Inferno dantesco: ‘Оставь надежду, всяк сюда входящий’ (‘Lasciate ogni speranza voi ch’entrate’). Nella Divina Commedia Dante vede la frase sulla porta d’ingresso dell’Inferno, quando si accinge a varcarla. Che coincidenza.
Dati e curiosità a parte, niente (neanche il corridoio) vi sconvolgerà quanto starvene lì in piedi sulla sabbia a ridosso del bosco di pini e vedere il Duga con i vostri occhi. (Sì, per qualche motivo il terreno è proprio sabbioso lì intorno.)
Intanto, non riuscirete a vedere la struttura nella sua interezza: è troppo estesa perché l’occhio umano possa abbracciarla tutta in una volta con lo sguardo. Ed è altrettanto difficile scorgerne la cima: è altissima e la luce del sole fa sì che non si riesca a tenere gli occhi fissi troppo a lungo.
Insomma, dovete accontentarvi di guardare in su ogni tanto, osservare le porzioni inferiori del si-stema e magari rabbrividire un minimo per il rumore inquietante che fa quando il vento soffia attraverso la struttura.
‘Il resto è silenzio’.
L’asilo di Kopachi (Копачи детский сад)
A un certo punto, durante la visita nella Zona dei 10 km ci siamo ritrovate a visitare una scuola materna. Non so bene come ci siamo finite. L’asilo si trova a Kopachi (Копачи), piccolo villaggio vicino a Chernobyl. Lì gli effetti dell’esplosione sono stati così devastanti che, dopo il disastro, (quasi) tutti gli edifici sono stati rasi al suolo e sepolti in buche scavate allo scopo. I materiali radioattivi sono stati così spinti in profondità nel terreno, lasciandolo pesantemente contaminato. Kopachi è tuttora una delle aree più radioattive dell’intera Zona. Provate ad avvicinare il dosimetro al terreno: lo sentirete suo-nare così forte che vi sembrerà sul punto di andare in tilt.
L’asilo (una delle poche architetture di Kopachi ancora in piedi) si trova in mezzo al bosco e l’edificio ricorda vagamente quello della Casa della Cultura di Zalissya. Ai lati del vialetto che porta all’ingresso c’erano alcuni giocattoli in mezzo all’erba. La scena poteva facilmente ricordare l’esterno di una qualsiasi scuola materna in cui i bambini avevano giocato all’aperto e poi, richia-mati all’interno, avevano dimenticato i giocattoli fuori: una bambola qui, un pezzo di cucina lì e così via. Solo che alla bambola di Kopachi mancavano un paio di arti e il fornello giocattolo era coperto di terra. Inoltre, come ci ha spiegato Yulia, i giochi erano stati messi lì ad arte qualche giorno prima da fotografi impegnati in un reportage sulla Zona.
Gli interni dell’asilo sono obiettivamente fra i luoghi più tristi e spettrali di tutta la visita. Lo stanzino a sinistra dell’ingresso è quello in cui i bambini lasciavano scarpe e cappotti ogni mattina e li riprendevano poi a fine giornata. Ora gli armadietti sono vuoti, hanno le ante mezze divelte e sono mezzi aperti, come se i rispettivi proprietari avessero fretta quando se ne sono andati.
Ci sono due stanze-dormitorio, una con letti normali e una con letti a castello più piccoli, in cui i bambini, appunto, più piccoli facevano la pennica pomeridiana. Anche qui su alcuni letti ci sono bambole senza occhi e peluche privi di qualche arto. Sugli altri letti non c’è niente: sono lì tutti vuoti e la loro struttura in ferro li rende simili a scheletri bianchicci.
Ciò che mi ha colpito di più dell’asilo è il ‘tappeto’ di carte che ricopre il pavimento. Dormitori a parte, le altre stanze dell’edificio (tipo la stanza degli insegnanti e la stanza dei giochi) sembrano il risultato di un’operazione di lancio-di-fogli-in-aria su vasta scala. Una spessa coltre di pagine di libri, fogli volanti e carte giace sulle assi di legno, mentre uno strato altrettanto spesso della polvere degli ultimi trent’anni colora tutto dello stesso grigio incolore.
Ci siamo trattenute lì solo per poco, ma si è capito subito che il silenzio assordante dell’asilo sarebbe rimasto con noi ben più a lungo. A oggi è ancora uno dei ricordi più vividi che ho di Chernobyl.
Il Reattore n. 4 (e i pesci gatto)
Se dovessi spiegare quello che ho pensato quando ho visto il reattore, sia in lontananza sia poi da vicino, mi verrebbe in mente un solo termine di paragone: il Basilisco. Vero, la metafora non suona granché solenne, soprattutto se magari uno mette vicini il Basilisco di Harry Potter e la Camera dei Segreti e la catastrofe che la centrale rappresenta. A pensarci bene, però, il paralle-lismo è calzante.
Gli antichi bestiari descrivono il Basilisco come una creatura leggendaria: è ‘considerato il re dei serpenti e si dice che abbia il potere di uccidere con lo sguardo… [è] talmente pericoloso da la-sciare una traccia di veleno dietro di sé’.
E anche il Basilisco in Harry Potter, l’enorme mostro-serpente che abita la Camera dei Segreti, è ugualmente pericoloso, capace di uccidere e/o pietrificare chiunque lo guardi.
Il reattore ha un nonsoché di Basilisco, avvolto com’è da un’aura di silenzio un po’ angoscioso. Lì in piedi davanti alla centrale, mi veniva quasi da non parlare a voce troppo alta per non ‘svegliarlo’. Sembra quasi di sentire che qualcosa di terribile e senza precedenti sia accaduto là dentro.
Che poi, vedrete bene la centrale, quella sì. ma non il reattore vero e proprio. Vedrete invece l’involucro in acciaio e cemento che lo riveste come un guscio color argento. Il ‘sarcofago’ (come è noto il guscio in questione) che c’è adesso è stato posizionato sul reattore nel novembre 2016. È così andato a sostituire una struttura precedente, risalente all’immediato post-esplosione e da tempo considerata compromessa.
Prima abbiamo visto il complesso da lontano. Stavamo guidando lungo un canale, che abbiamo poi scoperto essere il canale di raffreddamento della centrale. C’era il sole e nessuno in giro: nessun bus e nessun gruppo. Il nostro autista ha accostato in un punto apparentemente insignificante sul ciglio del canale. Il canale a un certo punto curva sulla destra e… La centrale è proprio là. Dal punto in cui eravamo si vedeva tutto l’impianto, sarcofago incluso. Tornati in auto, ci siamo avvicinati alla centrale e abbiamo dato un’occhiata in giro.
Il fatto di non vedere il reattore vero e proprio non rende l’esperienza meno intensa. La centrale emana un’energia particolare (in termini metaforici) e ha un potere evocativo fortissimo. A guardarla, viene da chiedersi cosa abbia visto chi si trovava in quello stesso punto quel giorno di aprile di trent’anni prima.
Fuori dall’edificio c’è anche un monumento: due mani accostate che tengono una miniatura della centrale e, sopra questa, una campana di allarme.
È permesso fare foto, a patto che nessuno degli scatti includa l’edificio grigio che si trova accanto alla centrale, che è quello che ospita il personale di sicurezza. Ma niente paura: ogni volta che fate qualche passo o vi spostate su un altro lato fuori dalla centrale, la vostra guida vi ricorderà cosa potete o non potete fotografare.
A un centinaio di metri (forse meno) dall’impianto c’è un ponte in ferro che attraversa il canale. In passato era il ponte della ferrovia, in uso quando i treni viaggiavano regolarmente da e verso la centrale. Anzi, se salite sul ponte vi ritroverete a camminare proprio sulle vecchie rotaie. Ci siamo andate anche noi e, a quel punto, Yulia ha tirato fuori una pagnotta di pane dalla borsa. Ha aperto il sacchetto di plastica e ha cominciato a lanciare in acqua pezzi di pane.
Abbiamo appena fatto in tempo a guardare giù, quando abbiamo visto l’infinita quantità di pesci che popolavano il canale. In superficie c’erano decine ei piccoli pesci neri, più due pesci gatto giganti. I pesci gatto avevano l’aria di essere talmente abituati a essere nutriti dai turisti che non sembravano neanche affamati. Fra l’altro, se è vero che un pesce gatto è lungo in media 1,80 metri, Yulia ha detto che, dopo l’esplosione, nel canale si sono visti pesci gatto anche lunghi tre metri.
Mentre ci allontanavamo in macchina dal reattore, la nostra guida ci ha avvisato che avremmo attraversato la cosiddetta Foresta Rossa (Рудий лiс in ucraino). L’espressione ‘Foresta Rossa’ è usata per descrivere la zona immediatamente intorno alla centrale, che comprende per lo più foreste di pini. L’assorbimento di grandi quantità di radiazioni dopo il disastro ha fatto sì che gli alberi assumessero un colore rossiccio-marrone, da cui il nome di ‘Foresta Rossa’. L’area è diventata (ed è tuttora) una fra le più contaminate della Zona e del mondo. Ciononostante, o forse proprio grazie al ridotto impatto umano, si è anche trasformata in un paradiso per la flora e fauna del territorio, la cui biodiversità negli anni è cresciuta esponenzialmente, riportando sul territorio anche specie ormai estinte o in via di estinzione.
Risalite in macchina per l’ennesima volta nel giro di poche ore, sapevamo che dopo la Foresta Rossa ci mancava solo un posto da visitare, ancora a piedi, ancora nella Zona dei 10 km.
Prossima fermata: Pripyat’ (Припять).