Se Dresda fosse un libro, si chiamerebbe Due racconti di una città, la Città Vecchia e la Città Nuova i due mezzi che, messi insieme, formano l’intero della sua identità. Io ci ho passato un weekend e del ‘libro-Dresda’ ho amato tutti i capitoli.
Avete presente quando, pensando a una città in cui non siete mai stati, già vi immaginate e vi aspettate che vi piacerà un sacco quando ci andrete? Ecco, a me questa cosa è successa con Dresda.
Mi rendo conto che nel mio caso sembra che io dica sempre la stessa cosa di (quasi) tutti i posti in cui vado per la prima volta. Lo so. Ma è vero che con Dresda c’è un episodio ben preciso che spiega perché tenessi tanto ad andarci.
Ero probabilmente alle elementari o alle medie. Stavamo studiando la Seconda Guerra Mondiale e, ovviamente, il mio libro di testo (come la maggior parte dei manuali di storia) include una foto di Dresda prima e dopo, ovvero la città rasa al suolo dai bombardamenti degli Alleati e la città ricostruita negli anni e decenni postbellici.
Già al tempo quelle foto mi sono rimaste un sacco in mente. Ricordo di aver pensato che la Dresda pre-guerra doveva essere splendida, ma che anche quella post-guerra mi affascinava un sacco.
Una vita e un weekend dopo, mi rendo conto che, per chiunque conosca un minimo la città sassone, le etichette di ‘vecchia’ e ‘nuova’ non corrispondono rispettivamente al passato e al presente in senso stretto. Sono piuttosto le due metà che, assemblate, formano l’identità stessa della Dresda di oggi, che, se fosse un libro, potrebbe a buon diritto (e ‘dickensianamente’) essere nota come Due racconti di una città. Di questo libro a me sono piaciuti tutti i capitoli.