Il secondo giorno del nostro weekend bavarese abbiamo fatto l’escursione a Hochries, attraverso valli verdissime, pareti rocciose e sentieri stretti stretti. Mangiare nei rifugi di montagna, poi, è sempre una gioia.
Se il giorno 1 era dedicato ai laghi, il giorno 2 era ovviamente dedicato alle montagne. Mentre guardavamo il tramonto, appena arrivate a Samerberg, Andi ci ha anticipato che la domenica avremmo fatto un’escursione fin su in cima al monte Hochries.
Perché mi restasse in mente il nome ci sono voluti due giorni, ma per memorizzare l’aspetto della montagna mi è bastato un secondo, quando Andi ha indicato il paesaggio in lontananza. Hochries era, se non la più alta, la seconda montagna più alta che si vedeva. La cima non era a punta, ma aveva un profilo orizzontale e si vedeva distintamente il rifugio. ‘Ecco, andremo là’, ha detto Andi. Sììì. Non vedevo l’ora.
Il sabato sera abbiamo temuto di non riuscire ad andare per via del meteo, che dava nuvole e pioggia. Invece, alle 10 della domenica siamo partiti in macchina, diretti verso l’inizio del sentiero. Aveva appena smesso di piovere. Mezz’ora dopo, l’escursione era ufficialmente iniziata e, ancora, continuava a non piovere.
Mi ci vorrebbe parecchio tempo per mettere insieme una descrizione compiuta e ordinata del percorso. Un’escursione in montagna è una di quelle cose che si spiegano meglio con le immagini che con le parole. È pur vero, però, che questo blog è fatto di parole più che di gallerie fotografiche (che pure, qua e là, ci sono).
Quindi, in questo caso, il modo migliore per spiegare come è stato salire sull’Hochries è probabilmente elencare le istantanee più frequenti che ho fotografato nella mia mente e che, se chiudo gli occhi, ancora riesco a visualizzare alla perfezione:
valli di un verde intenso punteggiate di alberi radi di un verde più scuro; pareti rocciose da cui spuntano erba e fiori, come fossero state cucite male ai bordi; stretti sentieri tortuosi lungo i pendii; mucche che brucano flemmatiche ovunque (sentiero incluso), ‘ma finché non è una mucca madre, non c’è nulla da temere’ (Andi dixit).
A un certo punto Andi ha indicato un punto lontano e ha detto che, dal punto in cui eravamo, si vedevano tutte e quattro le comunità di Samerberg. ‘Una, due, tre e… quattro! Dove vedete una chiesa, c’è una comunità’. Si distinguevano chiaramente i quattro agglomerati di case, anche grazie alle rispettive chiese e campanili.
Non avevamo fretta, quindi per arrivare in cima ci abbiamo messo fra le due ore e mezza e le tre ore. Ogni tanto ci fermavamo un attimo, anche solo per guardarci intorno e vedere come era cambiato il paesaggio. E, una volta in cima, la nostra fatica è stata debitamente ripagata da… nebbia. Era ore che immaginavo il panorama pazzesco che avrei visto da su, tanto che gli ultimi passi fino al rifugio li ho fatti letteralmente di corsa.
Una volta lì, si vedeva solo un muro di nebbia talmente fitta che il paesaggio si poteva proprio solo immaginare. LOL. Pioveva, c’era vento, c’era nebbia e faceva freddo. Il che può senz’altro suonare come un po’ (tanto) deludente, ma la verità è che con la montagna non ci puoi fare niente e, con o senza vista mozzafiato, io ero comunque al settimo cielo.
Subito prima di entrare nel rifugio, Andi ha frugato nella tasca del k-way e ha tirato fuori una piccola bandiera italo-bavarese artigianale. L’aveva fatta lui, così che potessimo piantarla sulla cima della montagna. Era fatta a losanghe, come quella bavarese, ma queste erano bianche, rosse e verdi, come quella italiana.
Andi l’ha data a Robi, che si è avvicinata alla gigantesca croce di legno affacciata sulla valle, proprio accanto al rifugio, e ha solennemente piantato la bandierina (fatta con uno stuzzicadenti da spiedino) nel terreno.
Il passo successivo è stato il pranzo. Mentre gli altri hanno optato senza indugio alcuno per le salsicce bavaresi, io ho mangiato le frittelle di patate con la salsa di mela. Che dire? WOOOW. Grazie Baviera. Era una bontà.
Per tornare a Samerberg abbiamo dovuto prendere la funicolare. Il nostro bus partiva la sera stessa da Monaco, quindi dovevamo partire per tempo (con Trubi, che ci avrebbe portato in stazione). La funicolare ci ha lasciato in un posto non meglio precisato, da cui partiva il sentiero che teoricamente ci riportava al parcheggio.
Abbiamo attraversato un pezzo di bosco e cercato invano una possibile scorciatoia attraverso i prati, in cui sono sprofondata nel fango fino alla caviglia (perché mi succede sempre?). Ci abbiamo quindi ripensato e siamo tornati sul sentiero asfaltato. E all’improvviso è uscito il sole e l’erba era, come già aveva detto Bobby, ‘più verde del verde’.
Una volta in macchina, sulla strada per Samerberg, ci siamo fermati da qualche parte (c’erano prati, alberi e basta) e Andi ci ha mostrato dove giocava da piccolo. Ci è voluto un minuto per arrivare, ma dalla strada era impossibile vederlo.
C’era un torrente in mezzo agli alberi e, lì accanto, una radura: lì Andi giocava con i suoi amici quando era bambino. C’era un sacco di ombra e, rumore dell’acqua a parte, c’era silenzio assoluto. Che meraviglia.
Arrivati a casa, abbiamo trovato un calderone di zuppa calda preparata dalla mamma di Andi, che aveva anche apparecchiato la tavola, così che potessimo mangiare qualcosa di caldo prima di ripartire. Io, Bobby e Robi eravamo senza parole, ma sono quasi sicura che abbiamo provato tutte e tre lo stesso profondo impeto di gratitudine nei suoi confronti.
Solo dopo due piatti di zuppa e due fette di torta al cioccolato abbiamo trovato il coraggio di salutare tutti.